Il Salotto tra le foglieRaccolta

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  1. Baque
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    Buonasera a tutti!
    Ho deciso di aprire questo topic per inserirvi di tanto in tanto qualche mio scritto e condividerlo con voi. Spero apprezzerete e che il confronto con voi possa aiutarmi a migliorare i miei lavori ^_^
    Due parole sul titolo del topic...



    Il Salotto tra le foglie, luogo di parole. Di rumori di venti, di niente. Silenzio, sublime insolito rincorrere le foglie che muoiono sotto i miei occhi. Veloce il ronzio di un attimo acerbo. C'è la solitudine che uccide il mio bisogno di te.




    La foto e le parole in corsivo sono di una cara amica, che così ha voluto esprimere cosa quel titolo significasse per lei.
    Sono parole che condivido. Quando ho pensato al Salotto tra le foglie per la prima volta ho immaginato proprio questo: un salotto letterario in mezzo al verde, incontaminato, in cui è la natura stessa l'Anfitrione che dirige le danze.

    Non aggiungo altro, vi lascio piuttosto alla lettura di questo breve racconto (non il primo, né più semplice o immediato che potessi scegliere, ma così ho deciso di cominciare), nella speranza di farvi passare piacevolmente un po' di tempo. ^_^


    PAURA



    La vita non inizia, né si spegne in un lampo, tra uno sguardo e un ultimo respiro. Arriva silenziosa, inebriando il corpo, a volte l’aria, e allo stesso modo si allontana ogni notte, in un altalenante turbinio di esistenze spesso inconsapevoli di se stesse. Quanti anni passano prima che un neonato si accorga di esistere? E quanti corpi si sono abbandonati al silenzio tra un sogno e un sorriso? La vita non inizia, né finisce. Si crea però, in un grembo o in un vecchio armadio, piccoli pensieri, timori, che prendono forma ed intaccano luoghi e istanti, perle di questa umile eternità.

    E tra le gambe di un lettino, relegata in quell’ombra, un’aria pesante si ammassa vaga, il caos sospeso tra la polvere e la penombra. Ovattate parole di donna, di mamma, portano quiete in quel limbo. Poi un click, e di colpo il buio avvolge la stanza, accarezza le mensole, la camicetta stesa su una vecchia poltrona, e quel grosso armadio di vecchio legno scuro, lì più per fare arredamento che per altro, forse per nascondere una vecchia cocciuta macchia sul muro. Non più la branda, ma il buio si fa gabbia, stringendo apatico gli occhi del piccolo, troppo impaurito per cercare di aprirli. Non importa, un malessere indefinito attraversa la creatura, incosciente lei stessa del dove, del quando, del come. L’unità si sfalda in tante fluttuanti incognite pervase di innocente malvagità, frutto di chissà quale assurdo timore, paura ignara del proprio perché, il cui scopo di esistere si perde in quel “come” senza risposta. Così con l’alba svanisce, chiamata poi in causa quando le finestre si chiudono e le coperte non bastano a tenerla lontana.

    Le notti si susseguono in un continuo mutare di forme e di maschere, di tensioni talmente palpabili da muovere l’aria. E il vento annoiato, che fa fluttuar le immaginarie braccia dell’ultima infantile visione, sussurra alle ante di aprirsi, dando spettacolo dell’ampio interno dell’armadio vuoto. Vuoto? Piccoli teschi si affacciano, poggiando le dita scheletriche sull’apertura. Lei, le costole in vista sotto l’abito rosso scollato, osserva quel nulla vagante, per poi incrociare lo sguardo del coinquilino. Non serve espressione per intendersi. Quella tristezza è storia ormai nota a loro, che ancora si chiedono silenti quale colpa abbia l’uomo per scoprire il timore ancor prima della vita stessa. L’altro ammasso d’ossa solleva la scura bottiglia vuota che stringe in mano, per tracannare una copiosa quantità di aria, prima di tornare a scrutare l’assurdo spettacolo all’infuori del loro piccolo mondo. Deforme, vago, una macchia invisibile lasciata ad attendere l’arrivo di un’idea che possa quantomeno donarle un aspetto, ridicola immagine di cui i piccoli scheletri si fanno da secoli spettatori. Pochi minuti di contemplazione. Sempre lo stesso, estenuante, antichissimo copione. Ritornano quindi alla loro esistenza, al loro armadio, avvolti nel loro perché. Niente mente, niente cuore, un sollievo per loro, non abbastanza però per scacciare un pensiero comune: la follia è del loro mondo, la maledizione è nostra. E su questa sentenza si chiudono le ante e il sipario sul teatro del niente.

    I giorni si alternano grigi, così i mesi, gli anni. E man mano che immagini, suoni, racconti varcano la soglia della stanza colorata, il buio diventa mostro, sussurro, riflesso. L’identità è tutto, senza di essa la ragione delle cose vien meno, ma avere troppi volti confonde e la via si smarrisce facilmente nel marasma di troppe fasulle mete. Il buio ha ormai perso la sua egemonia, trafitto e respinto dalla flebile luce lunare che filtra dalla finestra socchiusa. Entrando a braccetto col raggio, una debole brezza rinfresca la stanza immersa nel caldo umido delle sere estive ormai giunte. Niente di tutto ciò pare importare però alla nuda figura immobile, in piedi, di fronte al letto, le costole in vista, confuse tra lembi di pelle in eccesso che cola da ogni parte del corpo slanciato. Pochi istanti scorrono rapidi, per poi fermarsi a osservare la scena. Le braccia si alzano lente, dirette al volto liscio, vuoto, ponendo i dorsi delle mani a coprire le cavità oculari assenti, al di sopra di piatte narici e della bocca sdentata. I palmi, rivolti all’infuori, si aprono, fissando gli occhi al loro centro sul corpo sognante tra le coperte. Gli arti discendono quindi, di nuovo a imitare le curve del torso. Poi il tutto riprende, in un ciclo senza fine né senso. Non vi è voglia di spaventare, non un’emozione attraversa quel burattino mosso dai fili di infantili fantasie. Inerme spettatore di sé, cerca un colore in quei gesti, mentre una stanca tristezza scorre nell’aria, degnandosi di dare una goccia di vita a quel mesto riflesso di umana follia.

    Mossa a pietà, la corrente dischiude le ante socchiuse del vecchio mobile in legno, i crani baciati dal fascio di luce. Le vuote cavità non reagiscono subito, colme di assenti occhi spenti che scrutano immagini di petti nudi riversi tra le lenzuola, corpi di giovani uomini che troppo bene conoscono le grazie celate sotto la veste scarlatta. Non più di un attimo la donna scheletrica dedica al nuovo miscuglio di ansie e pazzia, intenta a trovare lo spazio che un tempo abbondava nel vuoto armadio. Di giorno in giorno quel piccolo mondo collassa, schiacciato dal peso di vizi e di oscure ombre umane, stringendosi inerme attorno ai due ospiti. Invero son questi a crescere, a farsi sempre più ingombranti di ora in ora. Lei soprattutto, che par non notare nemmeno il vuoto che gonfia il vestito all'altezza del ventre. Lei viaggia assente, mentre lui tracanna, le sporche bretelle a reggere i jeans logori, sotto una vecchia canotta che un tempo forse doveva essere bianca. Il vento, fischiando sommesso attraverso la stanza, dà quiete al silenzio che troppo pesava nell'aria, colonna sonora dei loro pensieri e di quelli strappati al riposo del corpo avvolto dalle coperte. Poi un colpo. L'armadio risuona, percosso, rumore di ossa, di legno e violenza, portando le cavità oculari prima a incrociarsi, quindi a guardare l'onirico mostro all'esterno. L'immagine trema, poi sfuma in un vago riflesso dello scheletro d’uomo. In un lampo il lenzuolo balza sul viso, coprendo le membra del tutto, ponendo fine al pericolo. L'attimo sfugge e la vita nell'armadio ritorna a procedere vacua e sognante. Non servono pelle né peli, però, perché un brivido faccia vibrare le ossa.

    L'alba non tarda a arrivare, portando con sé la luce e il calore del sole. Presto la stanza si svuota, lasciando l'aria in balia di versi d'uccelli e suoni che danzano tra il cielo e la strada non molto distante. Così scorre rapida la mattinata, ben poco goduta da ciò che l'armadio aperto contiene. Troppe ossessioni si nutrono di quelle che sono le loro creature. Ma ancora un battito rimbalza fuori dal guardaroba. Poi un altro, e un altro ancora. E appare di nuovo quell'uomo appena intravisto la sera prima. Ormai la paura é concreta, cosciente. Si volta verso gli scheletri, specchiandosi in quello che sbatte di nuovo il pugno sull'anta. Vi si riconosce, ma ormai la certezza ha macchiato le menti di tutti, eco di grida ovattate che corrono per ogni stanza. Un ultimo sguardo e l'odio che irrompe nell'uomo saluta quel luogo. Scivola via, nella polvere, quella paura, or consapevole del proprio perché, lasciando una lacrima che bacia le ceneri rossastre di ossa e velluto. Infine uno sparo. Ed anche l'ultimo scheletro può dirsi libero.





    Nota: scritto tra il marzo e l’aprile 2014.
     
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